“Mi dispiace dirlo a chi è convinto che un uomo che ha letto un libro sia sicuramente migliore di uno che non l’ha letto: be’, non è così. Tra i peggiori e i pessimi ci sono tanti uomini colti, uomini che possedevano biblioteche e ascoltavano musica sublime. La cultura non rende migliori le persone. I campi di concentramento non li hanno ideati uomini ignoranti.” (Edoardo Albinati, premio Strega 2016 con “La scuola cattolica”, citazione tratta dal libro “La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità e scambi”, Utet. Da “La Repubblica” dell’11 febbraio 2018.)
Questa affermazione ci sorprende un po’, a noi che in qualche modo “lavoriamo” con la cultura, ma è difficile da contestare.
Tutti coloro che sono di questa opinione riportano ugualmente l’esempio del popolo tedesco.
Un popolo che prima della Seconda Guerra Mondiale veniva ritenuto uno dei più colti d’Europa; il popolo che aveva dominato la cultura e l’arte a partire dal romanticismo; il popolo che aveva espresso il meglio della filosofia, della musica, della grande cultura umanistica, della fisica dell’ottocento e di tutto il primo novecento. Basta fare i nomi di Mozart, di Hegel, di Marx, di Wagner, di Einstein, di Plank, di Eisemberg ecc…
Nello stesso tempo ci sono intellettuali che esprimono un’opinione esattamente contraria. Nello stesso numero di Repubblica si può leggere questo titolo: “I libri sono da prescrivere: come le vitamine.” È l’opinione dell’editore Antonio Sellerio intervistato da Francesco Merlo.
Fra le opinioni degli intellettuali, favorevoli alla cultura senza se e senza ma, mi piace riportare quella di Tomaso Montanari: “La cultura è quella cosa (ormai l’unica) che non ci fa clienti, spettatori, consumatori, ma cittadini sovrani”. È l’opinione che attribuisce alla cultura la sua funzione più alta e più nobile.
Anche questa è un’opinione che non si può non condividere.
Sembra dunque che la cultura sia per alcuni la soluzione giusta e definitiva per tutte le questioni e per tutti i problemi dell’uomo, mentre per altri essa non assicuri alcunché, anzi potrebbe essere addirittura promotrice di operazioni e azioni chiaramente rigettate dalla storia e dal senso comune.
Perché questa duplicità?
Per venirne a capo mi sembra necessario analizzare e distinguere (come dicevano gli “scolastici”.)
Partirò da una citazione di Antonio Damasio. Bellissima, sintetica e soprattutto chiarificatrice: “Noi non siamo macchine pensanti che si emozionano, noi siamo macchine emotive che pensano”. In questa tesi, che Damasio espone nel suo famoso libro “L’errore di Cartesio” (Adelphi, 1994), mi sembra chiaro che venga rovesciato un paradigma millenario. Abbiamo sempre pensato che gli uomini fossero degli essere pensanti e che le emozioni (le “passioni” come le abbiamo chiamate per un paio di millenni) fossero dei disturbi secondari attribuibili alla nostra ascendenza animale e che andassero domate quanto prima e quanto meglio.
Damasio espone un nuovo paradigma.
Le emozioni hanno fatto compagnia agli essere viventi per milioni di anni, mentre il “pensiero logico” è nato solo da poche decine di migliaia di anni. Si ritiene che l’uomo “parli” da circa 40.000 anni ed è il linguaggio che alimenta il pensiero logico o almeno il pensiero logico che conosciamo oggi.
Inoltre il pensiero logico “scientifico” è nato solo da poche centinaia di anni.
Ma non sono le emozioni vengono prima cronologicamente, esse sono anche gerarchicamente più importanti.
Le emozioni hanno tenuto compagnia agli uomini influendo positivamente sulla loro sopravvivenza. E per l’uomo, come per gli animali, non c’è niente di più importante della sua sopravvivenza. Un messaggio pericoloso per la vita dell’uomo viene decifrato in 12 millesecondi, e consente una risposta immediata, mentre diventa pensiero cosciente nel doppio del tempo (24 millesecondi).
Inoltre le emozioni da sole o miste a pensieri, comportamenti e sensazioni danno colore alla nostra vita; ne evidenziano i significati e ne popolano i ricordi.
Il rapporto fra pensiero ed emozioni è dunque chiaro. Prima vengono le emozioni (sia cronologicamente che gerarchicamente) e poi viene il pensiero, la cognitività.
Diremo dunque che il pensiero è meno importante delle emozioni?
Non ci sentiamo di fare questa affermazione. Inoltre una eccessiva distinzione tra pensiero ed emozioni forse ci porta fuori strada. La mente dell’uomo è un insieme molto complesso di pensiero, emozioni e corpo. Il pensiero è impastato di emozioni e le emozioni guidano il pensiero.
È vero che il pensiero, le cognizioni, la logica, sono assolutamente necessari all’uomo per governare la società, per progredire, e per sviluppare la conoscenza del mondo e di se stesso. Ma è altrettanto vero che è molto difficile “pensare” se le emozioni non sono regolate. Alcune ricerche moderne e alcune scuole di psicologia ritengono che nel momento in cui le emozioni umane siano disregolate sia impossibile “pensare” correttamente. Se le emozioni fuoriescono da un particolare range di sostenibilità non definibile a priori, ma riferibile alle capacità dei singoli esseri umani, allora il pensiero è impedito o comunque fortemente condizionato. Per fare un esempio se siamo eccessivamente arrabbiati, o eccessivamente impauriti, o eccessivamente tristi è difficile prendere delle decisioni logiche e utili.
Quello che noi vogliamo sottolineare è che le azioni e i comportamenti degli uomini sono regolati non solo dal pensiero, ma sono regolati dalle emozioni e dal pensiero insieme. E quindi è enormemente riduttivo pensare di educare il pensiero e il ragionamento senza educare contemporaneamente le emozioni.
Per pensare bene è necessario che le emozioni siano educate e regolate, e questo è un percorso che per gli uomini è importante almeno quanto apprendere la logica e la cultura. Per “pensare bene” bisogna “sentire bene”.
L’uomo nel suo faticoso percorso storico ha messo a punto una grande quantità di competenze che accademicamente vengono chiamate scienze: la giurisprudenza, la fisica, l’economia, la sociologia eccetera, e con esse mira a governare la comunità degli uomini. Nonostante tutte queste splendide conoscenze, nonostante questo immenso e utile sapere possiamo finire nei campi di concentramento se ci facciamo guidare da emozioni disregolate e insostenibili. Per secoli le emozioni sono state ritenute delle “passioni”. Platone pensava che fossero cavalli imbizzarriti e furiosi che dovessero essere “contenuti” dall’auriga, cioè dal pensiero, dalle idee.
Durante tutto il periodo storico dell’egemonia cattolica l’interpretazione di fondo è stata la stessa. Le passioni, alla cui origine era individuato il maligno, andavano contenute con il pensiero e con la fede. E anche con la penitenza.
Le ricerche moderne, che farei iniziare dal bel libro che Charles Darwin scrisse sulle emozioni, hanno restituito le emozioni all’uomo, alla sua identità complessiva composta dalla mente e dal corpo.
Le emozioni sono la parte più importante, più intima, quella che riteniamo più cara e più significativa della nostra vita; la parte di noi che riempie i nostri ricordi e che permea i nostri desideri. È anche quella che ci può condurre al disastro; infatti se non riusciamo a regolare le emozioni l’infelicità ci attende dietro ogni decisione, dietro ogni appuntamento della nostra vita.
Questo è dunque il punto. Pensieri ed emozioni vivono insieme e si alimentano a vicenda. Che fare?
La risposta non può che essere: “facciamo un grande progetto di educazione emotiva.”
Sono millenni che tentiamo di educare il pensiero. Sono millenni che pensiamo che la cultura ci salverà. È giunto il momento di educare anche le emozioni. È necessario e urgente. Ed è anche difficile. Perché il pensiero logico lo educhi con la storia, con la logica e, in genere, con quella che chiamiamo cultura. Ma le emozioni come si educano? Il cognitivismo, la corrente psicologica più diffusa al giorno d’oggi, mira ad educare le emozioni con il pensiero. Ritengo che ciò sia possibile, ma solo parzialmente possibile. Le emozioni si educano con il pensiero e con le emozioni stesse. Nessun apprendimento è possibile senza affettività (Ferdinando Montuschi), tanto meno sarà possibile un apprendimento emotivo senza emotività.
Per concludere possiamo dire che entrambi gli autori che abbiamo citato all’inizio, Albinati e Sellerio, hanno ragione. E ciò succede perché non tengono conto di un interlocutore che non riescono ad individuare, cioè le emozioni.