Cosa avvenne veramente nel ‘68?
A cinquant’anni di distanza stanno uscendo vari libri, articoli di giornali e riviste che celebrano questo anniversario.
Io sono un laureato del 1969 alla facoltà di lettere e filosofia della Sapienza di Roma. Come si può capire sono stato al centro del terremoto. Ripercorrere quella storia è anche ripercorrere la mia giovinezza.
Oggi il punto di vista non può che essere diverso da quello che avevamo allora. E forse posso portare un piccolo contributo per capire ciò che veramente avvenne (o comunque quello che io penso che veramente avvenne).
Anche perché un’altra rivoluzione è cominciata, la rivoluzione digitale. E conoscere meglio il ‘68 forse ci può aiutare a decifrare la rivoluzione in corso.
Con più esperienza di allora, e con l’esperienza di quattro anni del Festival delle emozioni, posso leggere quegli eventi in una maniera diversa, sia dal punto di vista personale, sia da un punto di vista più complessivo.
Personalmente tendo ad interpretare i punti di svolta della storia come effetto di una nuova consapevolezza da parte di alcuni componenti della società umana.
In pratica questa è la mia idea (non proprio mia, ma io ci aggiungo qualcosa attinente alla consapevolezza emotiva) di come avvengono le rivoluzioni: una classe politica, un gruppo economico, una parte di società o della comunità, per una serie di vicende, a seguito di innovazioni scientifiche o tecniche, a seguito di nuove scoperte o di nuove condizioni economiche, raggiungono la consapevolezza di essere protagoniste e indispensabili nella società (un protagonismo di cui prima non erano consapevoli) e attraverso azioni, rivoluzioni o proposte di nuovi assetti istituzionali tendono ad affermare o a conquistare il potere.
Credo cioè che ci sia un momento in cui una parte della società raggiunga la consapevolezza cognitiva ed emotiva di un suo protagonismo che, al momento, non è riconosciuto nella pratica e nella vita sociale. E a seguito di questa nuova consapevolezza si faccia promotrice di cambiamenti epocali.
Faccio brevi esempi senza pretese di una approfondita prova documentale.
Ciò che ha generato la democrazia diretta della città di Atene per vari decenni nel quinto e nel quarto secolo avanti Cristo, ma tale da diventare un faro per migliaia di anni nella storia, fino ad influire sui percorsi storici della modernità, è stata un’aumentata consapevolezza di forza e di indispensabilità dei maschi ateniesi che avevano combattuto e vinto le guerre persiane.
L’uso dell’oplon, lo scudo rotondo di invenzione spartana, permetteva e richiedeva il combattimento a schiera. I fanti non andavano più in battaglia ad affrontare i singoli nemici in duelli faccia a faccia come si racconta nelle guerre omeriche. Riuniti in schiere organizzate e addestrate avanzavano congiuntamente nel campo di battaglia difendendo i lati della schiera con lo scudo e atterrando con la spada (tutte le spade della prima fila e quelle ai lati della schiera) tutti coloro che incontravano. I fanti organizzati in schiere vincevano tutte le battaglie e potevano fare a meno degli aristocratici che in genere combattevano solitari, a cavallo, chiusi in spendenti e costose armature. La modalità di combattere a schiera, fianco a fianco, colpendo insieme e difendendosi vicendevolmente e mostrando un’enorme forza che derivava dal gruppo e non dai singoli, rese consapevole una parte essenziale della città, i maschi attivi, della loro forza e della necessità di esercitarla direttamente nell’agorà. E diede vita alla democrazia diretta.
Secondo esempio: quasi sei milioni di giovani italiani, contadini analfabeti, nel giro di tre anni furono arruolati e molti di loro salirono sul Carso durante la prima guerra mondiale; e morirono, furono feriti o videro morire i loro compagni. Impararono a leggere a scrivere per corrispondere con le loro famiglie e per leggere giornali e scritti vari che il comando militare faceva circolare come mezzo di propaganda. Entrarono in trincea analfabeti e impauriti e ne uscirono, i sopravvissuti, come arditi. La loro fu una maturazione della consapevolezza del proprio potere e delle proprie capacità dovuta agli eventi e all’esperienza fatta. Quando tornarono a casa la politica di allora non riuscì a dare uno sbocco a questa nuova consapevolezza emotiva. Ma fu sufficiente che un vecchio poeta cocainomane, D’Annunzio, lanciasse la parola d’ordine di difendere l’italianità di Fiume che in poco tempo più di 60.000 ex combattenti si precipitarono a Fiume. E nel periodo successivo un esperto e cinico politico, Mussolini, che era stato un sindacalista rivoluzionario, riuscì a incanalare la forza generata sul Carso facendola diventare la marcia su Roma e la presa del potere.
Nomino brevemente altri due esempi: l’invenzione della stampa consentì di accedere direttamente alle fonti bibliche (da parte dei chierici e degli alfabeti) e ciò generò la riforma luterana e i conflitti che ne seguirono. La stessa rivoluzione francese è dovuta alla presa di coscienza di una borghesia parigina che tutto produceva e tutto organizzava, ma era priva delle leve effettive del potere riservate solo ai nobili e all’alto clero.
Per venire all’oggi già possiamo intravedere gli effetti di quella che probabilmente si rivelerà la più grande rivoluzione della storia e cioè la rivoluzione digitale. Essa ha già generato la primavera araba, i nuovi movimenti giovanili, il fenomeno delle migrazioni sollecitato dalla scoperta del benessere delle società occidentali ed in genere delle società ad economia avanzata, benessere che può essere scoperto negli angoli più remoti del mondo attraverso i social media e infine ha generato le reazioni al fenomeno delle migrazioni (la brexit, l’elezione di Trump, i sommovimenti nella politica italiana, ecc…). E continuerà a generare sommovimenti che allo stato attuale ancora non possiamo valutare per profondità e per estensione.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un numero veramente straordinario di persone che attraverso i social media hanno raggiunto o stanno raggiungendo una consapevolezza, prima sconosciuta, di poter influire sulle vicende umane.
Questa breve esposizione non ha l’ambizione di essere un approfondito studio storico, vuole essere solo la premessa per affrontare la domanda iniziale: cosa avvenne veramente nel ‘68?
Durante gli anni 50/60 si creò un mondo del tutto nuovo. Il progresso tecnologico ed economico (dovuto all’accelerazione impresse allo sviluppo dall’economia di guerra) distribuì benessere a molte più persone di quanto fosse mai accaduto durante la nostra storia di uomini. Furono gli anni in cui le macchine e gli elettrodomestici affrancarono gli uomini e le donne dalla fatica quotidiana del vivere; il frigorifero, la lavatrice, la televisione, le autovetture a basso costo e alla portata di tutto il ceto medio e medio basso furono il segno e l’annuncio di questa nuova realtà.
Uomini e donne progressivamente presero coscienza di questo nuovo mondo. Il benessere diffuso creò la convinzione che tutto potesse essere rinnovato compresa la gestione del potere politico e sociale che appariva esausto e contrario ad ogni innovazione.
Furono i giovani per primi e con vigore finallora sconosciuto a prendere coscienza di questa nuova situazione. Il loro percorso verso il nuovo fu inatteso e spiazzante, ma allo stesso tempo faticoso e doloroso.
È vero che c’era un nuovo benessere, che gli studi universitari erano accessibili anche a livelli di popolazione che prima ne venivano esclusi; è vero che la guerra nel Vietnam, vista dalla parte dei contestatori, faceva vibrare i cuori e faceva sperare nella possibilità di portare giustizia e libertà dove finora era stata esclusa. Ma un vecchio ceto politico, ormai non più corrispondente alla nuova situazione, governava il mondo e occupava ogni potere, da quello politico a quello accademico e a quello lavorativo e continuava ad utilizzare la guerra del Vietnam per sistemare le questioni del mondo.
Fu così che i giovani frequentatori dell’università, che per la prima volta avevano accesso ad una musica nuova, ad una cultura nuova, ad un’arte nuova e ad un mondo lavorativo nuovo, cominciarono a prendere coscienza che il mondo poteva cambiare, che un altro modo di governare era possibile e che l’antico potere poteva essere sovvertito.
I giovani studenti raggiunsero una consapevolezza nuova e da tutte le università del mondo si levò una parola d’ordine che chiedeva il cambiamento. Ciò rinnovò in molta parte del mondo la politica, portò nuove classi e nuovi ceti a posizioni di responsabilità.
Dove questo rinnovamento non fu possibile come in Italia, dal momento che ciò avrebbe dovuto prevedere l’ascesa al potere del Partito Comunista Italiano, il principale partito di opposizione, cosa impossibile per la divisione del mondo in due zone di influenza, quella americana e quella sovietica, si creò un collo di bottiglia, cioè l’impossibilità del rinnovamento, e questo collo di bottiglia generò piccoli fuochi di rivolta armata che non avevano nessuna speranza, ma che causarono un decennio di confusione, di deviazione e di dolore.
Questo è ciò che avvenne nel ‘68 nel mondo e con rallentamenti e confusioni anche in Italia: il rinnovamento del potere, sia politico che accademico. L’élite politica si allargò moltissimo fino a comprendere la classe media. I giovani, prima di allora inesistenti nel confronto democratico, divennero dei protagonisti “diretti”, cioè non rappresentati dai loro genitori.
Ma ciò non avvenne senza rivoluzioni e cambiamenti anche personali. Anch’essi confusi e dolorosi.
Mi piace ricordare che il cambiamento di prospettiva generato dal benessere diffuso e che oggi sembra logico e per alcuni versi necessario, fu invece una conquista lenta e per certi versi devastatrice delle precedenti convinzioni.
Con una certa apprensione ricordo le convinzioni e i modi di pensare che erano miei, di un figlio di contadini di provincia, nella cui mentalità la religione, lo stato con i suoi rappresentanti, i professori universitari che erano i sacerdoti del sapere, gli organi dello stato come la polizia e i giudici, fossero autorità indiscutibili e quasi inavvicinabili. E come nelle assemblee studentesche, lunghe, verbose e piene di fumo, nelle occupazioni delle università, nelle discussioni quotidiane, nelle piccole battaglie per l’autonomia, queste autorità mi fossero progressivamente demolite, anzi addirittura mi diventassero nemiche e quindi calpestabili. Questo percorso, ripeto, per me e credo per molti altri, fu lacerante, ma generò una consapevolezza nuova e una nuova volontà di agire. Ma così non fu anche per mio padre, un soldato della seconda guerra mondiale, che non riusciva a capire dove fosse la logica nello sfidare il potere costituito e il modo di pensare comune.
Soprattutto non capì quando io sfidai direttamente la sua autorità personale di padre. Un pomeriggio dopo un’accesa discussione fra me e lui, dove volarono da parte mia anche parole grosse (che non erano assolutamente necessarie) mio padre prese una matita, uscì fuori la porta di casa e scrisse sulla trave orizzontale superiore della porta la data di quel giorno. Come a dire che quel giorno segnava l’inizio di una nuova epoca (che non condivideva) o un punto di rottura irreparabile. Quella scritta rimase lì per tanti anni e papà non ne parlò più. È morto molto tempo dopo, non senza essere diventato orgoglioso di tutti i suoi figli.
Anche questo avvenne nel ‘68. Persone che mutavano totalmente il loro pensare, famiglie che si frantumavano nella rottura dei rapporti e degli equilibri interni, poveri e sottomessi che ardivano esprimere i loro diritti.
Avvenne che la storia nel suo percorso imperscrutabile creava protagonisti nuovi che ne muovevano il carro più velocemente e in direzione più sconosciute.
È ciò che avviene anche oggi. La rivoluzione digitale non sarà da meno del ‘68.
Prof. Giuseppe Musilli